Dopo il successo di Metropolis II, i Dream Theater erano entrati in una fase di studio, di ricerca. Si sentiva il bisogno di dirigere le idee verso nuovi lidi ma, ascoltando i lavori successivi, si aveva la netta sensazione che, a fronte di una quantità impressionante di materiale sonoro, non ci fosse altrettanta chiarezza sul modo con cui plasmarlo. Lungi dall'esaurire una vena creativa al contrario sempre prodiga, i Dream Theater davano l'impressione di roteare su se stessi, produttori di una forza energetica devastante ma, per varie ragioni, incapaci di darle una direzione.
Octavarium sembra aver finalmente posto fine a questa impasse. Tornando a un sound più vicino a quello dei tempi di “Images and words” e ricco di spunti di floydiana memoria, i Dream Theater prendono finalmente una strada precisa dal punto di vista sonoro e compositivo e, a briglie sciolte, sfornano un disco entusiasmante.
Si nota subito un rischiararsi di idee che erano, fino a qualche tempo prima, perse in un grigiore confuso e soffocante. Ora tutto è colore, energia che, a grandi fiotti, fluisce e travolge. Sembra quasi che il quintetto di New York si sia tolto un peso di dosso e abbia finalmente potuto dar sfogo alla propria creatività senza più lacci a condizionarne l'espressione.
In particolare c'è la sensazione di una maggior coesione su tutti i fronti, come se i cinque componenti riuscissero a dare il meglio, in una simbiosi pressoché perfetta. I Dream Theater hanno riacquistato coscienza di sé e si sono messi a fare musica più col cuore e meno con la testa. Il risultato è brani più emozionanti e meno cervellotici. Pur sempre con la suprema tecnica che ora però viene messa al servizio della musica, senza più dominare la scena con prepotenza ma limitandosi a deliziare le orecchie di chi ascolta.
Dopo i tormenti di Train of thought, i Dream Theater, con Octavarium, sembrano aver ritrovato la sicurezza smarrita.
Anno di pubblicazione: 2005
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OCTAVARIUM - Dream Theater
TRAIN OF THOUGHT - Dream Theater
Prosegue la marcia dei Dream Theater verso la ricerca di nuove sonorità e di nuove direzioni stilistiche, iniziata nel precedente lavoro Six degrees of inner turbulence. La scala di grigi con cui il libretto è stato pubblicato riflette le tinte con cui è stato dipinto questo disco: fosco, ruvido, metallico, probabilmente il più “scuro” di tutti i loro lavori. E` un album impegnativo dal punto di vista della fatica di ascolto poiché aggredisce l'ascoltatore con brani graffianti, a volte brutali.
I Dream Theater mostrano il loro lato oscuro e presentano una raccolta di canzoni a muso duro. C'è un malessere di fondo, una sorta di risentimento, di rabbia repressa che loro stessi fanno quasi fatica a trattenere. Quando non ci riescono la musica prende il sopravvento e deraglia. Sembra proprio che Train of thought sia proprio una sorta di momentanea perdita di controllo del quintetto, un treno lanciato in corsa, carico di pensieri, di cattivi pensieri, aggiungerei. Qui non si costruisce nulla, si distrugge, si va alla deriva, i Dream Theater stessi suonano senza sapere esattamente cosa stanno suonando, sono in trance, iniziano un discorso ma ne perdono il filo di lì a poco, poi magari lo riprendono in un momento di lucidità dopo essersi persi nelle loro follie ma non sempre ci riescono.
Train of thought è un album che lascia frastornati, mette a disagio, disorienta. I sospetti nati con “Six degrees”, dove si intravedeva una perdita di direzione da parte del gruppo qui prendono consistenza. I Dream Theater si sono persi nei loro meandri strumentali e sembra che non riescano più a venirne fuori, la cosa inquietante è che il labirinto in cui si sono cacciati è tetro e spaventoso e non tutti sono disposti a seguirli fin lì dentro.
Chi invece desidera vedere dove andranno a finire deve però stare attento a non perderli di vista perché questa volta i nostri sono animati da oscuri pensieri, non hanno tempo da perdere con nessuno, non vogliono dar retta a nessuno e non si preoccupano che quelli che li ascoltano li capiscano davvero. Questa volta ci sarà da correre per stargli dietro.
Anno di pubblicazione: 2003
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SIX DEGREES OF INNER TURBULENCE - Dream Theater
Negli ultimi anni si sono criticati alcuni gruppi metal perché diventati un po' troppo "commerciali". Album considerati pietre miliari nella storia del genere vengono seguiti da mediocri lavori che sacrificano un sound ostico ma affascinante per uno più orecchiabile ma scontato.
Per i Dream Theater accade invece che vengano criticati per il motivo contrario, cioé esagerano nel cercare a tutti i costi la complessità compositiva, al punto da mettere in difficoltà l'ascoltatore nel seguirli attraverso i loro labirintici cunicoli sonori.
C'è da dire che da questo album in poi, i Dream Theater pongono le basi per un'impostazione sonora che verrà mantenuta in tutti i successivi lavori. Si nota infatti come, se da un lato nei primi cinque album in studio era evidente un'evoluzione da un punto di vista stilistico, da ora in avanti lo stile tende a stabilizzarsi. Il gruppo incentra la propria ricerca artistica più sul lato creativo/compositivo, dedicandosi a quello sonoro solo marginalmente, operando qualche ritocco qua e là ma mantenendo una certa coerenza. Ecco allora che prende piede un'impostazione più heavy, più chiassosa, mentre i brani si fanno sempre più prolissi, somigliando a una sorta di arrampicata su scale toniche con velocità impossibili e scambi strumentali al limite dell'umano.
In molti sostengono che si sia passato il segno, che si badi più alla fredda tecnica che all'aspetto emozionale dei brani. Chiaramente c'è una componente soggettiva che non si può ignorare, dal canto mio ritengo questo un album poco significativo nel percorso artistico della band, dove emerge più una confusione creativa che una chiara direzione mentale, dove giusto in uno o due brani si fa sentire lo spirito del gruppo e il messaggio che esso intende proporre. Per il resto, i Dream Theater, con Six degrees of inner turbulence non sembrano riuscire a raggiungere l'ascoltatore in modo efficace. Troppo intricato, troppo ermetico, alla fine ciò che rimane è un gran frastuono e poco più.
Anno di pubblicazione: 2002
Titoli brani:
Disc 1
Disc 2
a. Overture
b. About to Crash
c. War Inside My Head
d. The Test That Stumped Them All
e. Goodnight Kiss
f. Solitary Shell
g. About to Crash (Reprise)
h. Losing Time/Grand Finale
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SCENES FROM A MEMORY - Dream Theater
Da molti considerato il loro lavoro migliore, di certo incarna il vero spirito del gruppo, cioé quello della narrazione musicale. Per molti mesi gran parte dei fan si sono lambiccati il cervello nel tentativo di scoprire la complessa trama che sta alle spalle di questo concept, che ben si presta, visto l'intrico della stessa esposizione, a speculazioni di ogni genere.
Tuttavia una storia c'è, piuttosto sorprendente anche, che mette in luce la parte più spirituale dei Dream Theater, spiegando un po' il loro punto di vista sulla vita e la morte. La rappresentazione di questo vero e proprio testo teatrale è affidata come sempre alle arzigogolate e geometriche costruzioni del quintetto, la cui caratura tecnica è sempre su livelli spaventosi.
La sensazione immediata che si prova nel maneggiare il disco è quella trasmessa da un'opera molto ricercata, su cui si nota una cura del dettaglio a partire dal libretto, fino naturalmente al contenuto del cd. Unica nota stonata, la qualità della registrazione a mio giudizio non proprio eccezionale (sound un po' opaco).
Emerge fin dai primi secondi lo stile del concept, quando la voce dello psicoterepeuta ci introduce nel dramma. E' un inizio molto floydiano, dopotutto i Dream Theater piazzano spesso qua e là omaggi ai gruppi che del prog hanno fatto la storia. Ma si tratta solo di poche battute perché poi i cinque ingranano la marcia e partono subito spediti, lasciandosi dietro tutto e tutti per imporre il proprio sound con la consueta autorevolezza.
La prima mezz'ora va giù tutta d'un fiato, l'esecuzione si trascina dietro l'ascoltatore in una sorta di scivolo da luna park, lanciati a tutta velocità nello svolgersi del racconto. Giunti in fondo si tira momentaneamente il fiato ma dura poco perché poi si ricomincia, anche se i ritmi si fanno più cadenzati e vari, alternando momenti aggressivi e drammatici ad altri più riflessivi. Fino al gran finale, quando il sipario infine cala.
E' un'opera di forte impatto, anche eseguita dal vivo sul palco riesce ad emozionare. Il nuovo arrivato Rudess alle tastiere imprime subito la propria impronta al suono del gruppo, nel quale sembra integrarsi alla perfezione, dopotutto diverrà colonna portante negli anni successivi quando i Dream Theater acquisiranno una conformazione stabile e duratura.
In molti concordano sulla considerazione che proprio grazie a "Scenes from a memory" il gruppo abbia avuto la possibilità di uscire da una sorta di tunnel creativo, che rischiava di far perdere loro le (buone) idee sulle quali si basavano i primi, splendidi lavori. Di certo è in questo album che vengono gettate le basi di una impostazione che la band si porterà dietro nel decennio successivo, sulla quale costruirà la propria conformazione definitiva e maturerà le evoluzioni che ogni gruppo progressive cerca.
Anno di pubblicazione: 1999
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OCEANIC - Vangelis
Come suggerito dal titolo della prima traccia, Vangelis ci invita a intraprendere con lui un viaggio intorno al mondo, solcando le acque degli oceani. E con la consueta grazia che contraddistingue la musica del grande artista greco, ci troviamo immersi in paesaggi dove l'azzurro del mare e del cielo spadroneggiano, dove il calore del sole bacia la pelle e dove le coste, luogo in cui acqua e terra si incontrano, disegnano forme e atmosfere che cambiano al cambiare della latitudine. Dalle spiagge spagnole alle isole orientali, dalla barriera corallina alle onde del Pacifico, Oceanic tocca lidi meravigliosi, dipinge atmosfere da sogno, Vangelis sa incantare come solo un maestro del suo calibro può fare.
Anno di pubblicazione: 1996
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THE SONGS OF DISTANT EARTH - Mike Oldfield
Senza pretese sperimentali, Mike Oldfield propone un disco molto accattivante, fatto di brani orecchiabili e sonorità attraenti. Le tracce si lasciano ascoltare senza fatica, regalando all'ascoltatore quel "sense of wonder" della migliore fantascienza. The songs of distant earth prendono infatti forma dalle idee di Arthur C. Clarke, uno degli scrittori più noti del genere, Mike Oldfield ne trae ispirazione e si butta in un viaggio fantastico. Atmosfere a metà fra lo scientifico e lo spirituale, fra il tecnologico e il mistico si alternano musicalmente, l'ascoltatore si trova immerso in atmosfere riflessive, contemplative per poi passare a momenti di pura esaltazione.
Niente ricerche, niente estremismi, The songs of distant earth non vuole essere altro che un viaggio entusiasmante.
Anno di pubblicazione: 1994
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REMEDY LANE - Pain of Salvation
Ormai la strada per i Pain of Salvation è tracciata. Il loro stile è riconoscibile, il livello dei loro lavori molto alto, sia sotto l'aspetto artistico che tecnico-espressivo. Il loro pubblico si è "abituato bene" e non è sempre facile mantenere certi standard. Tuttavia il prerequisito principale di una prog band, a prescindere dal genere di appartenenza è quello di sapersi reinventare o per lo meno aggiungere qualcosa a quanto già fatto in passato, senza mai incorrere nel pericolo di ripetersi.
In questo disco i Pain of Salvation lavorano "di fino" su quanto di buono avevano fatto nel loro precedente lavoro, riprendendo gran parte dei temi musicali, rilavorandoli, rinnovandoli, donando ad essi nuova linfa. Ne esce un'opera di grande impatto emotivo, in grado di regalare all'ascoltatore momenti forti ed entusiasmanti.
Remedy Lane narra di eventi che hanno riguardato la vita personale di Daniel Gildenlow, cosa che ha portato il nostro piccolo genio a comporre brani più intimisti ma anche più viscerali, vibranti, intensi. Ne è uscito un altro ottimo disco, che alza ulteriormente il già elevato livello di eccellenza raggiunto da The Perfect Element. Un risultato che francamente era difficile aspettarsi ma questo è un gruppo che ci ha ormai abituato a sorprenderci.
Anno di pubblicazione: 2002
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